Maria Micozzi. Intervista

Per cominciare, ci racconti come e quando è iniziato il tuo percorso artistico?
Non avevo ancora 5 anni quando ho scoperto la pittura. Un atto di disobbedienza e incantamento hanno creato, insieme, un imprinting decisivo. Le regole per me sono sempre state un problema, cioè una questione di logica sulla quale è difficile intendersi. Tutto dipende da cosa si vuole mettere in ordine e perché: un mondo di differenze in sinergia o un mondo di obbedienti ad una stessa regola dove l’errore è sempre sbagliato? Sull’arte non mi intendevo con la mia famiglia e mi sono difesa racchiudendo tutto in uno “spazio” privato, quindi niente studi d’arte, niente spazi d’arte, niente frequentazioni, solo una presa di distanza da quanto stava accadendo. Da autodidatta, più tardi, ho fatto di questa passione nascosta il mio lavoro, pagandone tutte le contraddizioni.

In che modo e da che cosa trovi ispirazione per realizzare le tue opere?
Quell’imprinting infantile era stato un’esperienza scioccante: mi aveva dato la felicità di un mondo vivo e, insieme, con il castigo, la sua negazione: la pienezza è trasgressività. Sono nata nel secolo in cui i “super-uomini“ hanno programmato la distruzione dei “sotto-uomini“. Forse da questo inconcepibile “perché?“ nascono le facce della mia ispirazione.

Quali sono i generi e i modi espressivi che prediligi?
I generi e le correnti, così come hanno voce nel mondo dell’arte, sono esiti di una cultura che controlla classificando e classifica separando. La vita è un dinamico insieme di fattori diversi e l’arte dovrebbe essere la metafora della sua complessità, invece che lo specchio di un pensiero lineare in continua riduzione. Il giovane ‘900, deluso del Vecchio e affamato del Nuovo, ha rotto la consunta Forma Accademica, e, con i suoi cocci, buttato via l’idea stessa di Forma. Spazio, Gesto, Materia, Colore, Movimento, Concettualità, ecc.. sono schizzate in giro e ogni frammento è diventato un elemento autonomo di ricerca e ogni ricerca si è divisa in decine di correnti. L’arte, dimenticando di essere la primaria domanda di senso e, quindi, espressione e ricerca di interezza, si ripiega su se stessa chiudendosi in scomparti. Quindi non mi coinvolge nessun genere in quanto tale, sento che ognuno è una ricerca lineare del mondo dei frammenti che cerco di ricomporre. Per me non si dà neppure l’opposizione tra arte iconica e arte aniconica; anzi, la differenza che per me ha senso è tra arte lineare e arte della complessità, tra arte che usa codici diversi, ma dello stesso tipo, e arte del feedback, del mettere in relazione codici di categorie diverse.
La complessità  è data da relazioni non-lineari fra elementi diversi tra loro, quindi la forma complessa che rincorro non sta nella riduzione degli elementi, ma nella sintesi di tante differenze, astratte, informali, iconiche, ecc. Nel lavoro costruisco supporti aperti, spesso non complanari, sui quali intervengo con elementi diversi, sia grafici che materici, iconici e non. Cerco contrasti e superamenti. Nessi e fili cuciono gli strappi, connettono frammenti. Il gioco delle metafore continua a spingermi verso meta-livelli dove i contrasti possano trovare linguaggio e relazione, dove le parti possano dire l’intero. L’icona che più mi interroga è il nudo femminino, la metafora della forza che genera e che, generando, esprime l’aspetto più denso dell’enigma che chiamiamo vita.

Qual è il messaggio che vuoi trasmettere al pubblico tramite le tue opere?
In effetti non chiedo di trasmettere messaggi, ho soprattutto bisogno di cercare ed esprimere forme che diano senso di appartenenza e pienezza.

Come ti poni nei confronti dell’arte del passato e ci sono artisti che hanno ispirato la tua produzione artistica?
Vivo il tempo come un flusso continuo di relazioni, esperienze e progetti, articolazioni molto sottili, non come pacchetti separati. La memoria è un oceano in continuo movimento. Passato, Presente e Futuro sono soprattutto scatole della dicotomia e funzionali ad essa. L’arte contemporanea, più che esprimere il senso della nostra crisi, ne segue la via , ricerca “soprassalti” cognitivi; sconnessa dalle domande del corpo, chiede forme e ragioni alla tecnologia, si affida alla prevedibilità del suo codice binario. Le fonti ispiratrici? Per me è importante la rivoluzione, purtroppo mancata, di Duchamp che porta l’accento sulla relatività del contesto senza per altro aprire l’orizzonte alla pluralità dei contesti possibili e, quindi, senza offrire la chiave per uscire dalla binarietà. Il trasalimento ‘concettuale’, isolato da altri elementi, temo sia diventato uno schema fisso che non fa più trasalire.

Cosa pensi del sistema dell’arte contemporanea del nostro Paese e in che modo ritieni che un artista possa emergere?
Far sentire la propria voce dipende soprattutto dal senso che noi diamo a questa voce. Siamo in un contesto chiassoso che legge quello che gli è simile; le relazioni corrono con la fretta dei mezzi informatici e prendono derive artificiose; in definitiva il compito di creare linguaggi è lasciato prevalentemente al mercato e il mercato fa massa omogeneizzando merci e persone. La velocità come potere sul tempo reifica le parole e appiattisce il pensiero critico e metaforico, impoverisce la sfera creativa. L’arte parla di se stessa, peccando di autoreferenzialità, e perde così la spinta eterodossa. Un’impressione di massima è che l’Italia tanto ricca d’arte soffra di una “sostanziale“ distrazione per il “lavoro“ dell’artista. Comunque l’emersione richiede più semplicemente soldi, tanti soldi.

A cosa stai lavorando ora e quali sono i tuoi progetti futuri?
Mi interessa il tema della frammentazione sia dal punto di vista della composizione sai da quello epistemologico. Progetti futuri? Due mostre personali: alla Alson Gallery di Milano a cura di Floriano De Santi a febbraio/aprile, al Castello della Rancia a Tolentino a giugno/luglio. Per le rassegne: ‘Dichiarazioni di Pace’ a cura di Giorgio Seveso, Biennale dell’incisione a Campobasso e una rassegna, evento collaterale a Manifesta 12 a Palermo.

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